Vicarello, il tesoro dell’acqua

Vicarello

Vicarello, edificio termale.

A Vicarello, nel 1852, durante il lavoro di allacciamento delle acque della sorgente termominerale nei nuovi bagni costruiti dal Collegio Germanico Ungarico, allora proprietario della tenuta, venne messa in luce una spaccatura della roccia dalla quale sgorgava l’acqua alla temperatura di 40-45° ca. totalmente intasata di vasi, monete e altri oggetti gettati in antichità dai malati fiduciosi o riconoscenti giunti colà per curarsi.

La stipe votiva era composta da una notevole quantità di aes rude, di un quadrilatero, di aes grave e migliaia di monete coniate di epoca romana, oltre a piccoli oggetti, vasi e bicchieri in bronzo e in argento, alcuni dei quali recavano l’incisione dell’itinerario a tappe dalla città spagnola Cadice a Roma, con le distanze tra le località che sorgevano lungo il percorso (104 località). La forma del recipiente ricorda quella delle pietre miliari che indicavano il cammino lungo le strade romane. Il percorso inizia a Cadice sulla via Augusta la quale, a Narbona, si unisce alla via Domiziana, passava attraverso Valencia e Barcellona, fino a giungere ad Arles. Da lì la via Julia Augusta arrivava a Piacenza passando per la riviera ligure di ponente, percorreva la via Aemilia che arriva a Rimini e si congiungeva alla Via Flaminia passando per Narnia e Ocriculum e giungendo, infine, a Roma. Le acque Apollinari non sono menzionate e non erano interessate dal percorso.
Tutto il materiale della stipe votiva era stratificato in ordine cronologico e, in fondo a tutto, vi erano strumenti litici dei quali non è stato possibile stabilire una datazione, mentre sembra che con l’aes rude possiamo risalire almeno fino all’VIII secolo a.C. e con le monete più recenti possiamo arrivare agli inizi del IV secolo d.C.

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Nel 1852 il padre G. Marchi scrisse su “La Civiltà Cattolica”: Presa la decisione di creare bagni, per “dieci e dodici infermi” in vasche che ricevessero l’acqua “di sotto in su…alla distanza di poco più di un mezzo metro dalla scaturigine…, il chiusino primitivo che era insieme l’unica vasca, convenne che fosse demolito, a fine d’allacciar l’acqua nelle nuove forme: ed erano pochi minuti che lo stantufo (pompa a vapore) mandava fuori dalla sua tromba l’acqua della sorgente, quando sotto la superficie incominciassi a scoprire che il chiusi no era ingombro d’antico metallo… L’acqua nella sua sorgente trovasi poco meno che a quaranta gradi del termometro Réaumur: onde il primo degli uomini che vi si mise dentro, giunse appena a toglierne quella piccola quantita che giacea sopra un risalto di tegolone, il quale divideva il chiusino come in due piani inferiore e superiore… (quindi) un secondo operaio vi scendeva a distruggere il tramezzo in gran parte corroso dal calore e dalla forza dell’acqua e ad incominciar a ritrarre il metallo che sotto il tramezzo stesso si nascondeva. L’impresa durò piu ore; gli operai che l’uno all’altro si succedevano, furono tredici, che tutti ne uscivano malconci dalle scottature e il metallo ritrattone bastò a far riempire ben due bigonci. Il 22 gennaio scorso, ad escavamento compiuto, noi giungemmo sul luogo a prender ragione dell’accaduto e ad esaminare il metallo. Il soprastante ci confermò nel concetto che avevamo della sua fedeltà: né potemmo riprenderlo dall’aver cessato dalle ricerche col toccare che aveva fatto la bocca angusta dello scoglio, da cui l’acqua con impeto si slancia verso il cielo.

Pochi anni dopo il P. Tognetti S.J. così raccontò: II P. Marchi fa le meraviglie che fra tante monete di rame non si trovasse neppur la più piccola moneta d’argento e d’oro e solo qualche vaso d’argento di poche oncie ciascuno.  Più tardi se ne ebbe la facile spiegazione… Morto il P. Marchi (10 febbraio 1860), un bel giorno uno sconosciuto ma che poi ben si riconobbe, si presentò al P. Tongiorgi, già divenuto nuovo direttore del Museo Kircheriano, e gli mostrò alcuni vasi d’oro e d’argento, trovati, come egli diceva, recentemente in alcuni scavi, e per i quali (tanto era il loro pregio e rarità) domandava non meno di 20.000 scudi, ossia circa 100.000 lire italiane. Appena il P. Tongiorgi gli ebbe in mano, al leggervi in alcuni il nome di Apollo, cominciò a sospettare che facessero parte del tesoro di Vicarello; ma ne ebbe la prova adattando un manico distaccato, facente parte del materiale colà recuperato, ad uno dei vasi d’argento offerti, che ne mancava. Richiesto poi il nome di quel cotale, presto si venne a scoprire che costui era proprio uno degli addetti ai lavori di Vicarello nel 1851-1852. La cosa fu portata a conoscenza del S. Padre. Pio IX. Questi, udito bene tutto il fatto, rispose che “il furto era così chiaro, da potere noi con ogni diritto convenire in tribunale il colpevole. Però riprese, quel disgraziato che sarebbe certo condannato alla galera a vita, è padre di numerosa famiglia. Abbiamo compassione più che di lui, della moglie e dei figlioli. Pigliate pure tutti i vasi, ed io pagherò le 100.000 lire: poi una metà di quelli resti al Kircheriano, l’altra metà si porti al Museo Vaticano. E così fu fatto.

Successivamente M.S. De Rossi: Gli strati di quel cumulo di doni votivi conservavano esattamente l’ordine cronologico, dimodoché vennero alla luce dapprima monete e vasi dell’epoca imperiale, poi monete della romana repubblica e dei popoli circonvicini, battute e fuse, e gradatamente si passò dallo aes signatum all’aes rude, col quale cessava il metallo e cessavano anche le ricerche, o per meglio dire, venne meno la ricercai degli oggetti che attraevano la cupidigia dei cercatori. Sotto al metallo apparvero brecce, le quali furono stimate il fondo del bacino. Io debbo alla cortesia del ch. P. Tongiorgi, direttore del Museo Kircheriano, l’aver chiamato la mia attenzione sopra alcuni residui di queste brecce venute nel suo museo insieme a gran parte del predetto aes rude. Ho conosciuto che quelle pietre sono tutte focaie, straniere alla natura delle rocce vulcaniche del luogo; e in tutti i pezzi, niuno escluso, vidi tracce visibili di tagli artificiali. Parecchi sono evidentemente coltelli, grattatoi, piccole frecce e cunei o dell’epoca archeolitica o della eneolitica incipiente; il resto sono frammenti prodotti dalla lavorazione che possono spettare ad ambedue le epoche.

Ricostruzione del deposito di monete. Palazzo Massimo, Roma.

Ricostruzione del deposito di monete. Palazzo Massimo, Roma.

Purtroppo non è possibile stabilire con certezza la datazione degli strumenti litici menzionati, mentre sembra che con l’aes rude possiamo risalire almeno fino all’VIII secolo a.C. e con le monete più recenti possano arrivare agli inizi del IV secolo d.C. (che cessò di tributarsi al IV sec. incominciato dell’era nostra), poiché le monete hanno sempre avuto un
lungo periodo di circolazione e quindi è possibile che siano state gettate nella stipe anche alcuni decenni dopo la loro emissione.

Autrice: Elena Felluca

ultima modifica: 3 gennaio 2018

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